La “marina” è la pesca.
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Il rumore è sempre lo stesso:
quello dei pochi gabbiani, che volteggiano in aria, e delle onde che si
infrangono ora sul bagnasciuga, ora sui blocchi di cemento. Anche le persone
sembrano le stesse. Vecchi guardiani che fanno la guardia ad imbarcazioni
sempre più vetuste in compagnia della loro MS. Perché le Marlboro costano care
ed il lavoro non è remunerativo come prima. Questo è lo scenario della
marineria di Mazara. Tutto, paradossalmente, sembra uguale. Fermo in un punto
di quiete. Le voci dei marinai, certi giorni della settimana sono un ricordo,
e, quando si sentono, spesso sono del Maghreb. Queste immagini, per nulla amplificate o stereotipate, sono la
visione plastica di quella che una volta era la “marina”, di cui dovevi per
forza parlare: per il numero di navi, per il presunto grado d’integrazione tra
le diverse etnie, per la particolare posizione geografica, per la qualità, non
eccelsa, ma comunque di rilievo del pescato. Questo è quello che era,
rispetto a quello che è. Ma se
raccontando di ciò non si aggiunge nulla di nuovo al risaputo è solo perché la
situazione attuale è figlia di un processo in cui nessuno ha mai voluto mettere le mani, per diverse ragioni, se non
per aumentare ulteriormente il tasso di inefficienza del settore, per
trasformare le imbarcazioni in seggi elettorali e per acquietare gli appetiti
di personaggi non proprio “puliti”.
Vox populi vox dei.
Partiamo dall’inizio. Da ciò che pensa la gente. L’elemento essenziale
di questa crisi è il caro carburante, cresciuto nell’ultimo decennio in modo
sproporzionato rispetto al prezzo del greggio, ma soprattutto rispetto al
prezzo del pescato. La prima esigenza, quando l’imbarcazione esce per una
battuta di pesca, ancora prima dei salari, dei viveri e della burocrazia, è
quella di coprire il costo del diesel impiegato per armare il natante. E’
opinione di tutti che se questo costasse meno non ci troveremmo in questa
situazione. Gli si può dare torto? Nei bar si ascolta però un’altra versione,
che non nega il costo del carburante, ma apre gli occhi su altre problematiche.
Sostanzialmente l’anziano marinaio che da ormai 50 anni “bazzica” quei luoghi
nota come la crisi del settore, sicuramente legata ad una crisi globale, non
abbia allo stesso modo toccato tutti, nonostante i costi siano per tutti gli
stessi. Alcuni imprenditori del mare, davvero pochi per la verità, hanno
affrontato con piglio imprenditoriale la sfida, aumentando i propri interessi,
riequilibrando gli interessi tra armatori e grossisti, superando la china e
guardando anche ad altre nazioni, con situazioni sicuramente più agevoli. Se è
vero che fisiologicamente questo salto non poteva essere fatto da tutti, una
parte rilevante, che avrebbe trainato
il comparto, doveva con competenza espandersi.
Andare avanti.
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Negli anni ’60 e ’70, con ignoranza e con tanto
sacrificio, potevi tirare avanti, ed anche bene. Oggi l’armatore medio, con la
barca ereditata dal padre, segue schemi obsoleti condizionati dall’incapacità
manageriale, dall’ignoranza, e dalla scarsa visione d’insieme. Insomma gli
imprenditori sono così perché non sanno come va il mondo. La dimostrazione?
Settori più professionali come quelli agricoli del nord Italia, capito per
tempo come andavano le cose hanno automatizzato, innovato, razionalizzato. Sono
andati al passo coi tempi. Gli armatori mazaresi no. La mancanza di metodo, di
didattica, ha fatto puntare sempre un enorme pescato e su fermi biologici non
dati secondo criteri logico-scientifici, ma secondo le elargizioni del politico
di turno (o dell’amico locale del politico di turno). Che senso ha ad esempio
dare il fermo biologico non considerando compiutamente i tipi di pesci pescati
ed il loro relativo periodo di riproduzione?
E
si potrebbe anche parlare delle imbarcazioni, sproporzionate rispetto
alle esigenze, che costringono a battute di pesca lunghe venti giorni, con un
connesso posizionamento del mercato che da una parte inflaziona il pesce
realmente fresco, dall’altro non produce il benessere sperato a fronte
dell’investimento.
C’è del marcio?
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Soggetti ancora più arditi, con il tipico sguardo di chi dalla vita ha
capito tutto e niente più vuole sapere, propongono una tesi ancora più forte:
anche negli anni ’80 il settore non era realmente così florido, solo che
c’erano altre forme d’introito. Non lecite. Molte realtà armatoriali, quando la
mafia controllava anche i singoli granelli di sabbia, avevano capito che con i
pescherecci si poteva fare arrivare in Sicilia di tutto. Armi, droga, clandestini.
Così come si poteva inviare (e trasportare) di tutto e chiunque. Questo
garantiva ingenti quantità di denaro che doveva essere gestito, meglio se
allegramente, attraverso gli stessi armatori, motoristi e gente di mare
prezzolata a dovere. Il mercato, di fatto, veniva drogato da natanti, che
uscivano in mare non solo per pescare: i soldi erano comunque garantiti. Ma
svanito il controllo materiale della mafia sul porto (e specifico: fine del
controllo, non della presenza), le imprese sono dovute andare avanti da sé. Ora
non voglio insinuare che la marineria di Mazara fosse il vespaio della mafia,
ma che era ne sicuramente tangibile il suo controllo nei precedenti
decenni. La più tipica esemplificazione
di questa realtà è la mancanza di una teoria d’insieme nella flotta. Perché un
settore che si presta per sua stessa natura alla collettività, dove tutti
dicono di pescare prodotto locale, non ha dato ordinario seguito alle
cooperative? Queste sono state il punto di forza di molte economie: la
divisione della ricchezza era omogenea, ma soprattutto la difficoltà non
ricadeva sul singolo. Prendete Mazara invece, fallisce un natante, la società
che ci sta dietro, infliggendo danno all’intero sistema, ma nessuno ha titolo o
modo per sopperire. Ma d’altronde chi avrebbe messo bocca, se poi ognuno aveva
un piccolo segreto da mantenere? Chi avrebbe voluto condividere se aveva di che
temere o di che essere temuto?
Oltre c’è la politica.
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Si sorride quando si constata che nell’elenco dei
lavori usuranti non c’è il
marinaio, nonostante il sindaco Cristaldi sia stato politico di spicco (e
per la verità ancora lo è), a livello regionale o nazionale. Si sorride perché il mercato all’ingrosso è arrivato con un ritardo
mostruoso nella sede del porto, ed alla fine, quando ormai anche le pietre
sapevano che era inutile è stato costruito lo stesso dall’amministrazione
comunale del tempo. Si sorride perché mai e poi mai si è pensato di smuovere la politica
nazionale, da Berlusconi a Miccichè, sulle navi giapponesi che solcano il mar
Mediterraneo, fregandosene delle nostre regole o esigenze. Si sorride perché il marchio “doc” (o “dop”) non è ancora stato
promosso, effettivamente e compiutamente, per il nostro pesce o per prodotti ad
esso strettamente connessi per avere una tutela legale sugli abusi che il
sistema del mercato impone per aumentare il profitto di chi uomo di mare non è. Si sorride perché il porto canale viene dragato con tutta questa
lentezza e senza una cadenza prefissata. Ma la politica mazarese continua a scendere in piazzetta dello Scalo
cercando consensi. E ancora oggi ne ha molti.
Tutto questo discorso, e poi?
Poi ci sarebbero le soluzioni, ma questa è un’altra storia.
Alberto Tumbiolo (foto)
Ivano Asaro
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